Le vostre storie

Mi chiamo Mattia, ho 27 anni e nel mese di Luglio mi è stato diagnosticato un ‘astrocitoma di grado IV’ in una zona profonda del cervello. Nonostante io mi definisca una persona poco ansiosa e che riesca a gestire lo stress e le paure, in quel momento il mondo mi è crollato addosso e tutte le certezze sul mio futuro ed i miei progetti di vita hanno iniziato a venir meno.

Questo fino a quando non ho incontrato per la prima volta il Dottor Christian Brogna che, sin dalle prime parole, è riuscito a trasmettermi una tranquillità ed una serenità che non ricevevo da mesi. Tutto ciò mi ha convinto ad affidarmi a lui, ad aprirmi nei suoi confronti raccontando la storia della mia malattia, in un dialogo che ricorderò per tutta la vita in quanto fatto di sorrisi e sguardi sereni nonostante la situazione complicata. E così nel mese di Ottobre ho deciso di effettuare l’intervento chirurgico per l’asportazione del suddetto tumore cerebrale.


Sulla preparazione professionale del Dottor Christian Brogna non ho mai avuto dubbi, ma ciò che mi ha colpito è stata la cura di ogni minimo dettaglio, dagli esami preparatori fino all’intervento chirurgico e successivamente con la ripresa post-operatoria. Non dimenticherò mai lo sguardo soddisfatto del Dottor Brogna quando, dopo appena due giorni dal delicato intervento, comunicai allo stesso di essere riuscito a fare una passeggiata nel corridoio della clinica, cosi come non dimenticherò mai la calma e la fiducia che il Dottore ha trasmesso a me ed alle persone vicine a me nei giorni precedenti e successivi all’operazione chirurgica. Nonostante il percorso non sia ancora finito non smetterò mai di ringraziare il Dottor Christian Brogna per la cura che ha dedicato a me e sono sicuro che farà del bene a tante altre persone aiutato dalla propria competenza ed estrema umanità.

Se penso a Giulia, alla prima volta che l’ho incontrata nel mio studio, penso alla sua paura. Mi capita spesso di incontrare pazienti spaventati e d’altra parte sapere di avere una malformazione vascolare cerebrale è davvero qualcosa che sconvolge la vita, travolge la quotidianità e mette in discussione i punti fermi della vita. Lo capisco ed è per questo che, all’inizio, lascio gli aspetti strettamente medici in secondo piano. Ci sarà tempo per quelli, prima di Giulia paziente viene Giulia persona.

E così scopro che Giulia è un’appassionata di viaggi, ha 42 anni, un’agenzia specializzata in vacanze in oriente e ha 3 figli, il più piccolo frequenta le elementari e il più grande è in piena adolescenza. Non ho difficoltà a crederle quando mi dice che all’inizio ha dato la colpa dei suoi mal di testa allo stress, alla stanchezza, alla mancanza di sonno, all’eterno slalom tra la sua carriera e la sua vita da mamma.

La cefalea è iniziata qualche anno fa, un dolore nella parte anteriore della testa, sulla fronte, che inizialmente ha combattuto con analgesici e antiinfiammatori. Ma senza grande successo. Per questo suo marito l’ha convinta ad andare ad un Centro cefalee dove gli è stata prescritta una terapia antidolorifica più aggressiva e una risonanza magnetica cerebrale. Ma le cose da fare sono tante, i figli hanno bisogno di lei e non ha mai trovato – o voluto trovare – il tempo per prenotare la risonanza. E allora lo ha fatto il marito per lei e una mattina di primavera l’ha accompagnata. La diagnosi è arrivata come uno schiaffo in pieno volto: cavernoma cerebrale frontale destro, con episodi multipli di sanguinamento, che sono alla causa della cefalea.

Giulia è spaventata. Non serve a nulla la parola ‘benigno’, non la tranquillizza. Perché l’idea di dover subire un intervento chirurgico la terrorizza. E così, come è brava a fare, rimanda la decisione. Prima le vacanze al mare con i figli. Scuola e lavoro possono aspettare per una volta. Ha affittato una casa sulla spiaggia ed è partita. Sperando di lasciarsi preoccupazioni e paure alle spalle.

Quando a settembre è tornata alla vita di tutti i giorni, una mattina mentre è a casa, ha una crisi epilettica. Il marito la trova per terra in cucina, con il bollitore del the accesso. Quando si riprende in ospedale si rende conto del pericolo che ha corso. E se l’attacco epilettico le fosse preso quando aveva il bollitore in mano? O mentre era alla guida accompagnando i ragazzi a scuola? E allora la paura dell’ignoto è diventata più grande di quella dell’intervento. Ed è arrivata da me.

Mi racconta tutto questo, mi fa vedere le foto dei suoi figli ancora prima che le immagini della risonanza, mi parla del suo amore per i viaggi. Conoscerla meglio mi aiuta a tranquillizzarla, le spiego che non può rimandare, che per risolvere il problema delle cefalee dobbiamo assolutamente intervenire e rimuovere il cavernoma. Altrimenti gli episodi di sanguinamento si sarebbero ripresentati, sempre con maggiore frequenza. Vi era anche il rischio di epilessia.

Fissiamo nuovi esami ma soprattutto nuovi incontri. Per conoscerci meglio, per studiare l’intervento insieme, per darle la possibilità di farmi tutte le domande che desidera. Ma non le lascio la possibilità di rimandare ancora. Ho un alleato nel marito, che non le lascia mai la mano e non perde mai il sorriso.

E’ un intervento delicato, in anestesia generale, che eseguo con neuronavigazione eco-intraoperatoria e monitoraggi intraoperatori perché il cavernoma si trova nelle vicinanze delle aree cerebrali che permettono i movimenti di metà del corpo. Durante le 4 ore di intervento la mappatura cerebrale dell’area motoria primaria e delle fibre di connessione mi permette di preservare ogni funzionalità. Grazie al microscopio operatorio raggiungo il cavernoma attraverso le cisterne cerebrali, una sorta di “autostrade liquide” che mi permettono di rimuoverlo completamente senza ledere alcuna parte del cervello.

Quando la mattina dopo passo a trovarla la trovo in piedi davanti allo specchio, parlando al telefono in vivavoce con i figli. E’ bello sentire quelle risate, le voci che si accavallano, i suoi piccoli uomini che la chiamano mamma. Per la prima volta vedo Giulia sorridere. “Ho avuto così tanta paura di non farcela, di non svegliarmi, di non camminare, di non parlare. E a vedermi adesso non sembra nemmeno che mi sono operata, non mi ha nemmeno tagliato i capelli. Non mi crederà nessuno e io che per una volta volevo approfittarmene e farmi coccolare un po’” mi dice sorridendo. Il marito la guarda da un lato della stanza e non ho dubbi che tornata a casa ci penserà lui a farle fare una vita tranquilla per le successive 3-4 settimane e a non farle smettere le terapie farmacologiche per l’epilessia.

Sento Giulia periodicamente, mi racconta dei figli e dei nuovi viaggi che programma. E ogni volta le prometto che prima o poi salirò anche io su quell’aereo con lei.

“E’ tutto iniziato in seguito a due voli aerei con dei fortissimi mal di testa, non erano i primi voli che prendevo e non ci ho dato troppo peso.
Pensavo fosse impossibile avere qualcosa di serio e che fosse causa di cervicale e/o stress.
In seguito a una risonanza magnetica ho avuto una prima diagnosi di ‘voluminosa cisti della pineale’ e, da ipocondriaco, ho iniziato subito a spaventarmi moltissimo, anche perché il mio sogno è quello di vivere all’estero e di viaggiare molto e con una cosa del genere mi era impossibile realizzarlo.
Ho fatto molte visite in cui mi era sempre stato detto che era una semplice cisti ma che, per via delle dimensioni, poteva darmi seri problemi.
Ho parlato con molti neurochirurghi ma nessuno mi aveva mai convinto a fare l’intervento, seppur conoscendo i rischi di non farlo, perchè l’altra alternativa era monitorare il tutto.
Fortunatamente ho incontrato il dottor Christian Brogna che non solo mi ha rassicurato e detto che era in grado di operarmi con basso rischio, ma mi ha anche aperto gli occhi e fatto notare che la cisti aveva una componente solida e non era tipica.
Poco prima di incontrare il dottore avevo già le idee chiare: volevo procedere con l’intervento chirurgico, se c’era una persona in grado di potermi aiutare era proprio lui.
L’intervento è andato nel migliore dei modi e di questa lesione per ora mi rimarrà solo il ricordo.
Alla fine non si trattava di una semplice cisti ma di un vero e proprio tumore, fortunatamente benigno e di grado I (Astrocitoma Pilocitico).
Da quando mi è stato tolto sono una nuova persona, pieno di energie. Per tutta la vita ho sempre avuto una grandissima stanchezza che attribuivo ad altre cause, quali ansie e stile di vita.
Non avrei mai pensato che la causa di tutti i miei problemi potesse essere un tumore benigno al cervello ma fortunatamente si è risolto tutto nel migliore dei modi.
Nella sfortuna di avere avuto una cosa così rara, che probabilmente ho avuto per chissà quanti anni vista la stanchezza che mi ha sempre caratterizzato, ho avuto la fortuna di incontrare un neurochirurgo esperto che mette in primo piano il paziente in tutto il percorso”.

Quando incontro per la prima volta Margareth nel mio studio mi colpisce immediatamente il suo sguardo stanco. Perché stona sul viso di questa donna che si capisce subito che è energica, combattiva, abituata a tenere testa ad un consiglio di amministrazione senza un minimo di cedimento. Quello sguardo così stanco, quasi rassegnato, è stridente.

Margareth ha 46 anni, è a capo di un’azienda multinazionale con una filiale importante in Italia, origini siciliane da parte di madre e tedesche da parte di padre. “Sono un’italiana nel cuore e una tedesca nella testa” mi dice sorridendo. “Ma adesso non mi bastano più l’ottimismo e la forza per andare avanti. Ho bisogno di aiuto. Ho bisogno che qualcuno mi liberi dal dolore e faccia riprendere la mia vita”. E adesso anche la voce è stanca, non solo lo sguardo.

La storia di Margareth, purtroppo, è uguale a tante altre storie.  All’inizio è solo un indolenzimento al collo che diventa presto un dolore sempre più insistente. Colpa del cuscino, colpa delle troppe ore davanti ad un computer, colpa della macchina: all’inizio si cercano mille spiegazioni ma senza mai venirne davvero a capo. Fino a quando quel dolore diventa invalidante e la vita rallenta.

Poi c’è la fase della fisioterapia, che non regala molto sollievo fino a quando, ogni mattina, ci si sveglia con il braccio destro addormentato, un dolore che parte dalla spalla e arriva fino alla punta delle prime 3 dita della mano. E serve a poco far finta di nulla se diventa impossibile guidare, scrivere al computer, cucinare e persino pettinarsi è un momento così doloroso da richiedere coraggio.

Quando Margareth arriva nel mio studio sono già 5 mesi che fa questa vita. E quando il suo medico curante, finalmente, le ha prescritto una risonanza magnetica cervicale ha quasi temuto che le dicessero che era ‘solo stress’, la stessa cosa che le ripetevano tutti da mesi.

E invece no. Altro che stress. Margareth aveva una voluminosa ernia del disco cervicale tra la 5° e la 6° vertebra cervicale che comprimeva la radice nervosa in modo importante, provocandole dolori invalidanti. Quando mi mostra le immagini della risonanza le spiego subito che è quella la causa non solo del dolore ma anche del deficit della sensibilità di una parte braccio, della mancanza di forza che le impedisce anche solo di sollevare piccoli pesi.

E lo sguardo si riaccende perché Margareth è una donna intelligente e pragmatica, capisce subito che c’è una soluzione al suo problema. Così le spiego perché è importante intervenire senza perdere altro tempo, perché è importante preservare le radici nobili e il midollo spinale che, posizionato posteriormente al disco vertebrale, sta iniziando a subire una compressione. Un intervento che molti definiscono ‘di routine’ ma che io descrivo nei dettagli al paziente perché se è vero che io ne eseguo molti durante l’anno è altrettanto vero che Margareth ne subirà uno solo nell’arco della sua vita. E allora è giusto che sappia tutto, che prima di entrare in sala operatoria abbia il tempo di farmi tutte le domande. Anche quelle, apparentemente banali, come l’impatto estetico di una cicatrice.  E visto che non esistono domande sbagliate o sciocche, le spiego che le resterà solo una piccolissima cicatrice alla base del collo, anteriormente, che quasi non si vedrà.

Qualche giorno dopo, quando prima dell’intervento rivedo Margareth sono felice di trovarla serena. L’intervento, in anestesia generale, dura poco e grazie al microscopio operatorio posso rimuovere in modo preciso il disco intervertebrale, quindi l’ernia e decomprimere la radice nervosa. Sostituisco il disco intervertebrale con una piccola cage ripiena di osso sintetico e finisco l’intervento nella consapevolezza che, al risveglio, questi mesi di dolore e invalidità saranno solo un ricordo.

Già il giorno successivo, quando passo a visitare Margareth la trovo in piedi e lo sguardo è brillante. Sorride perché non ha più dolore, perché per la prima volta si è svegliata senza braccio addormentato e formicolio alla mano. “Questo collare soft che mi ha detto che dovrò indossare per poche settimane mi regala un fascino da regina d’altri tempi, incuto un certo timore con questa postura, mi sa che non lo tolgo più” mi dice scherzando.

Dopo 48 ore dall’intervento ci siamo salutati, non aveva più dolore al braccio, è tornata alla sua vita con la raccomandazione di prendersela un po’ comoda fino a quando non avrà completamente ripreso la forza del braccio. Ma già so che tornerà presto alla sua vita di sempre, senza limiti. D’altra parte era proprio questo l’obiettivo.

Conosco Thomas dai racconti di un comune amico delle Dolomiti, un compagno di sci sin da quando eravamo ragazzi. Quindi, quando lo incontro per la prima volta a Roma mi sembra quasi di conoscerlo da sempre. Perché Thomas è un atleta, uno sciatore a livello agonistico, di 30 anni con un grande talento. “Ero un atleta e se continua così non so se potrò mai tornare ad esserlo” mi dice quando mi racconta la sua storia.

Sì perché sono mesi che Thomas è lontano dalle piste da sci. Ma non solo, è lontano anche dalla palestra dove si allena ogni giorno. Thomas da mesi è fermo e trascorre le sue giornate tra una poltrona e il letto. Quando le cose vanno bene si concede una passeggiata. “Difficile non essere depressi e ho anche il rimorso di aver creduto a chi mi diceva che mi sarei ripreso presto. Dovevo essere più determinato”.

Il problema di Thomas si chiama ernia del disco lombare e sono quasi 10 mesi che cerca di sconfiggerla con strategie non chirurgiche. Mesi in cui il dolore si è fatto sempre più invalidante. E l’attività agonistica sempre più lontana.

All’inizio era un lieve dolore lombare che coinvolgeva anche il gluteo sinistro, una cosa sopportabile al quale non dare troppo peso. Un po’ di massaggi e di denti stretti per non smettere l’allenamento e i giorni passavano. Fino a quando il fastidio non è diventato un dolore intenso, una lombosciatalgia che partiva dal gluteo per arrivare fino alla caviglia. Un dolore così lancinante da obbligarlo a letto e a dire addio alle piste da sci.

Inizia così un percorso fisioterapico ma dopo un giovamento iniziale il dolore torna e, se possibile,  è persino più forte. Finalmente si sottopone ad una risonanza magnetica lombosacrale che evidenzia un’ernia del disco L5-S1 sinistra che comprime la radice nervosa ed è la causa del dolore.

Una diagnosi che non lascia dubbi ma che non segna per Thomas l’inizio della fine del suo problema. Perché gli vengono consigliati dei cicli di ozonoterapia che regalano solo un giovamento parziale. Ma non gli permette né di allenarsi né di gareggiare. La stagione è inevitabilmente compromessa.

Quando incontro Thomas per la prima volta conosco già la sua storia ma richiedo una nuova risonanza magnetica e mi accorgo subito che l’ernia del disco è aumentata di volume. Davanti a me ho un giovane atleta, dolorante, rassegnato, preoccupato di dover dire per sempre addio all’attività agonistica. Gli spiego che l’unica strategia possibile è l’intervento chirurgico, in anestesia generale, per decomprimere la radice nervosa. Un intervento risolutivo che richiede una convalescenza semplice: non sollevare pesi per un mese e per due settimane fare delle lunghe passeggiate ogni giorno. Non ho dubbi che Thomas sarà diligente.

Dopo 36 ore dall’intervento lo dimetto, vorrei potergli prescrivere di rimettere gli sci ai piedi appena tornato a casa perché so che è l’unica medicina per la sua depressione ma lo invito alla prudenza e alla progressione. Ci salutiamo con la promessa di rivederci presto sulle Dolomiti.

Quando qualche mese dopo ci sentiamo al telefono per sapere come vanno le cose, mi racconta che sta meglio, che non ha più il dolore di cui soffriva. Ma anche quella stagione che sta per iniziare è compromessa. Perché per un atleta rimanere fermo per mesi è il danno peggiore che gli si possa fare. Che ha risolto il problema dell’ernia completamente ma è la forma fisica in generale da dover recuperare. Ha il rimpianto di aver aspettato troppo, di aver fatto passare troppo tempo prima di arrivare all’intervento. Un’attesa che ha pagato non solo fisicamente ma anche psicologicamente. “E’ successo a me ma credo che succeda anche a chi non è un atleta. Lo stress psicologico che comporta mettere in pausa la propria vita è difficile da sopportare. Tutto si è fermato e per 10 mesi non ho vissuto a pieno la mia vita. Ma adesso me la riprendo”. E non ho dubbi che lo farà davvero.

Una lezione di storia dell’arte in sala operatoria? Io posso dire di averla ricevuta. Grazie ad un professore d’eccezione, Fabio. E’ successo qualche anno fa e se è vero – come è vero – che ogni paziente che opero mi lascia in dono qualcosa di sé, della propria personalità, nel caso di Fabio il regalo è stato ancora più grande, un viaggio appassionato e intenso nei grandi pittori.

Incontro Fabio la prima volta in una freddissima giornata invernale, di quelle che ti fanno solo sperare che arrivi presto la primavera. Ma Fabio nel mio studio è quasi un raggio di sole, perché è un giovane uomo di 35 anni, con un gran voglia di raccontarsi. E’ molto consapevole della sua malattia perché ci convive da 12 anni e, quindi, molte delle sue domande hanno già trovato risposte. Molte ma non tutte.

Da ragazzo, in seguito ad episodi di cefalea, la madre – una donna decisamente energica e operativa – ha deciso di approfondire la questione e Fabio si è sottoposto ad una risonanza magnetica cerebrale con mezzo di contrasto che ha evidenziato una piccola alterazione a livello dell’area premotoria destra. Fabio è mancino e per questo l’emisfero dominante è proprio il destro.

Iniziano i consulti tra vari esperti e tutti giungono alla conclusione che si tratta di un piccolo tumore cerebrale,  un glioma di basso grado, non operabile a causa della sua localizzazione in corrispondenza delle aree motorie cerebrali. Una diagnosi che non ferma Fabio, che decide di continuare nel suo progetto di vita, di studiare, di seguire la sua passione per la storia dell’arte e diventare un docente.

Per dieci anni le cose vanno così, tra consulti e esami. Nessun sintomo, solo un po’ di cefalea ogni tanto. Fino a quando una nuova risonanza magnetica non mostra che il glioma è aumentato di volume ma, per gli esperti, resta comunque inoperabile.

Passano altri due anni e Fabio decide di rivolgersi a me. E’ stanco di sentirsi dire che è “inoperabile”, ha nuove domande e cerca nuove risposte. E’ disposto a rimettere tutto in discussione e per questo decidiamo di ripartire da zero. Una nuova risonanza con mezzo di contrasto, una risonanza magnetica funzionale e sequenze di trattografia e spettografia. Alla fine ho un quadro completo e chiedo a Fabio di venire. Di prendersi tempo perché abbiamo molto di cui parlare.

Così gli spiego che è possibile operare e rimuovere la lesione in sicurezza ma solo se accetta di sottoporsi ad un intervento di awake surgery e cioè, da sveglio. All’inizio mi guarda dubbioso, pensa che io stia scherzando poi più parliamo più vede questa come l’unica soluzione possibile. “Se c’è una cosa che mi ha insegnato l’arte è che serve coraggio e un po’ di follia per cambiare la storia e fare grandi imprese” mi dice sorridendo. Gli spiego che sì, serve coraggio, ma niente follia. Tutto sarà programmato nel dettaglio. E che lo faremo insieme. Che lui sarà il protagonista assoluto del suo intervento. Che in sala operatoria entreremo insieme e ognuno farà la sua parte, per questo dobbiamo essere una squadra. E dobbiamo fidarci, e affidarci, l’uno all’altro.

C’è voluto del tempo per programmare l’intervento. Avevo bisogno di conoscere il cervello di Fabio per disegnare la strategia e per questo l’ho sottoposto ad esami neurocognitivi avanzati, per evidenziare tutti i domini cerebrali, dalla memoria, alla capacità multitasking, il linguaggio ecc.

E’ stato tempo ‘investito’ per conoscere il cervello di Fabio ma anche la sua personalità, la sua storia, le sue priorità. Tempo per entrare in connessione e in sintonia, per fare squadra.

L’intervento è durato 8 ore, l’équipe era stata studiata su misura per quell’intervento, la neuropsicologa presente in sala, grazie a delle opere d’arte su un tablet ha potuto passo dopo passo, tenere sotto controllo la capacità di linguaggio di Fabio. Sì, perché mentre io operavo Fabio descriveva le immagini, raccontava le scene familiari dipinte secoli prima da grandi artisti. Perché gli interventi di Awake Surgery si eseguono in anestesia locale, il paziente non sente dolore, ed è collaborativo. Fabio ha tenuto una delle sue famose lezioni che tanto piacciono agli studenti.

Quando il giorno dopo lo vado a trovare in camera, ritrovo il vulcanico professore che ormai conoscevo bene. “Sono felice di aver avuto il coraggio, e anche un po’ la follia, di voler cambiare la mia storia. E sono felice che si è trattato di un’opera d’arte a più mani. Perché se c’è una sensazione che mi porterò sempre dentro è quella della tranquillità. Se me lo avessero detto solo qualche settimana fa avrei detto che era impossibile. E invece...”.

Invece è andato tutto bene. E io l’ho sempre saputo, in ogni istante di quelle 8 ore sapevo che Fabio rispondeva ottimamente e io mi potevo spingere un po’ più in là a rimuovere quel tumore definito da tutti inoperabile e che l’esame istologico avrebbe confermato essere un glioma di basso grado.

Rivedo qualche tempo dopo Fabio. Per un controllo di routine, per sapere come vanno le cose. E, se possibile, lo trovo ancora più vulcanico. “Doc, pensavo di interrogarla sulle opere che ho descritto durante l’intervento…” mi dice con un’espressione seria. Fortuna che non sa fare gli scherzi, perché per un attimo sono stato io ad aver bisogno di “coraggio e follia”.

La prima volta che ho incontrato Matteo ho pensato che quel ragazzo sarebbe stata una bella sfida. Umana più che medica. Perché Matteo, 16 anni, anzi ‘quasi 17’, come ci tiene a precisare subito, è davvero furioso. Con la vita, con il destino, con la malattia, con la sfortuna, con la madre che gli vieta di andare in motorino, con il padre che non gli permette più di andare a suonare la chitarra la sera, come me che sono l’ennesimo camice bianco che gli chiede di fare esami e indagini.

Matteo è un ragazzo e come tutti i ragazzi la vita se la vuole bere tutta d’un fiato perché anche se ha tutto il tempo davanti è come se di tempo non ne avesse proprio e allora tutto va fatto ora, subito. Lo capisco e un po’ lo invidio perché è quella bella sensazione di energia vitale che tutti abbiamo provato alla sua età.

Da più di 1 anno, però, Matteo ha degli episodi di epilessia con assenze. Il primo è successo a scuola, durante un’interrogazione. Tutta la classe pensava stesse facendo finta per sfuggire ad una risposta al professore ed è stata ilarità generale. Ma poi gli episodi sono diventati tanti e improvvisi, come quella volta che mentre faceva colazione si è rovesciato il latte caldo sulla gamba. Una piccola cicatrice ricorda, tutti i giorni, a Matteo che la sua vita è complicata: la madre gli ha vietato il motorino e di prendere la patente a 18 anni non se ne parla proprio. Il padre, poi, non lo manda più fino a notte tarda nel weekend a suonare la chitarra con gli amici. Al massimo lo scorta fino alla sala prove.

Quando arriva da me, Matteo è accompagnato dai genitori e da una lunga serie di analisi. La madre non smette di parlare e raccontarmi la sua ansia, il padre interviene e Matteo sta ad occhi bassi a tormentare il polsino della felpa.

Dopo i primi episodi di epilessia e un elettroencefalogramma con alterazioni la diagnosi è arrivata con la Risonanza magnetica cerebrale: piccolo tumore benigno localizzato nell’ippocampo di destra. Così viene messo in terapia con più farmaci antiepilettici ma le crisi non scompaiono.

E’ Matteo ad aver convinto i genitori a venire da me. Perché grazie ad internet ha studiato e pensa che per lui ci sia una speranza dalla chirurgia. Lui vuole liberarsi di quel tumore e riprendersi la vita. Così dopo una valutazione neurocognitiva e psicologica e dopo ulteriori esami, compresa una mappa tridimensionale cerebrale, decido che l’intervento si può fare. E i genitori superano la paura, comprensibile, di un intervento al cervello.

E’ un intervento in anestesia generale, in microchirurgia con approccio mininvasivo, che richiede mappaggi intraperatori. Riesco a rimuovere la lesione e durante l’intervento mi assicuro anche di valutare l’attività epilettica intorno al tumore in modo da rimuovere quella piccola parte del cervello che contribuisce a generare le crisi in Matteo. Alla fine sono davvero soddisfatto.

Quando ci salutiamo con Matteo – 4 giorni dopo l’intervento torna a casa – gli prometto che lo andrò a sentire suonare al suo primo concerto. Ma gli chiedo di avere pazienza, per quanto ne possa avere un 16enne (quasi 17 Doc!).

Infatti, le terapie con antiepilettici non può interromperle ma vanno piano piano a scalare. Così come le crisi.

E’ passato un anno dall’operazione e Matteo mi ha chiamato per invitarmi alla festa dei suoi 18 anni, finalmente suonerà davanti ad un pubblico e mi vuole in prima fila. “Deve mantenere la promessa, Doc” e sa che lo faccio davvero volentieri. Da 20 crisi al giorno è passato a 1-2 episodi al mese e solo con 1 farmaco. Un bel successo, soprattutto perché Matteo, finalmente, la sua vita l’ha ripresa in mano. Studia, suona, fa sport e si è anche innamorato. Altro che avere pazienza!

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